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Di tutta la lunga carriera di Girolamo Romanino (Brescia, 1484/1487-1560), gli ultimi anni di attività, quelli che all'incirca dalla metà del Cinquecento conducono fino alla morte del pittore, costituiscono il capitolo certamente meno indagato e forse anche meno apprezzato. In realtà, anche questa stagione estrema della vicenda dell'artista lombardo appare animata da una vitalità e da un'energia inventiva davvero straordinarie, la cui inconfondibile impronta si coglie tanto negli spettacolari affreschi profani realizzati in palazzo Lechi e in palazzo Averoldi a Brescia, quanto nella poderosa e quasi inaudita invenzione compositiva della pala con la Vocazione di Pietro e Andrea, commissionata all'artista nel 1557 dai benedettini del convento di San Pietro a Modena. In anni in cui il colto e sofisticato linguaggio della Maniera si era ormai diffuso una parlata comune, alla quale non si poteva rinunciare, Girolamo seppe tenere fede, in quelle imprese, alle ragioni della propria vocazione di "irregolare", dando vita a opere di vigoroso realismo e di dirompente carica espressiva, che si pongono come un unicum nel contesto della pittura italiana contemporanea.